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Published by Carlo on 21 Giugno 2012
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  • Diritto del Lavoro
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    Corre seri rischi il datore di lavoro non in regola con l’osservanza dei doveri prescritti dal D.Lgs. 626/1994 (ora confluito nel D.Lgs. 81/2008) in tema di sicurezza sul lavoro nella specifica ipotesi in cui abbia assunto un lavoratore a tempo determinato. È quanto stabilito dalla sezione lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza del 2 aprile 2012, n. 5241, con cui si accolgono le doglianze del lavoratore ricorrente avverso la sentenza impugnata per aver escluso la stessa la conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato in uno a tempo indeterminato. Né, a sostegno della mancata conversione, potrebbe addursi, come ha fatto la Corte di merito, l’assenza di una tale previsione ad opera del D.Lgs. 368/2001, costituente fonte esclusiva della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato.L’iter argomentativo seguito dalla Cassazione parte dalla considerazione per cui l’art. 3 del decreto del 2001 indica una serie di divieti all’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, tra cui quello disposto in relazione alla mancata effettuazione da parte dell’impresa della valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 626/1994, proprio a sottolineare il disvalore legislativo accordato a quelle condotte violative degli specifici divieti stabiliti a protezione di interessi intensamente qualificati sul piano costituzionale. La specificità del precetto alla stregua del quale la valutazione dei rischi assurge a presupposto di legittimità del contratto trova la sua ratio nella più intensa protezione dei rapporti di lavoro sorti mediante l’utilizzo di contratti atipici, flessibili e a termine. Ciò in considerazione della minore familiarità del lavoratore e della lavoratrice sia con l’ambiente di lavoro sia con gli strumenti di lavoro, a causa della minore esperienza, della minore formazione e della minore professionalità. A fronte di un più pregnante obbligo di sicurezza nelle situazioni descritte l’ordinamento esprime, pertanto, il proprio disvalore verso l’inosservanza degli adempimenti in tema di sicurezza dei luoghi di lavoro vietando al datore di lavoro che abbia mancato di effettuare la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori di stipulare il contratto di lavoro a termine.Tanto premesso, la Corte giunge ad affermare che il termine eventualmente opposto in spregio del divieto risulta nullo per contrarietà ad una norma imperativa. La nullità della clausola del termine di durata comporta la nullità dell’opzione contrattuale relativa all’ipotesi derogatoria (contratto di lavoro a termine) e la validità, invece, del contratto di lavoro secondo la regola generale del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Si verifica, così la conversione in un «normale» contratto di lavoro, senza che vi sia spazio per un’indagine circa la comune volontà delle parti in ordine a tale esito. Tale soluzione interpretativa, coerente con i principi più volte espressi dalla stessa Corte di legittimità in ordine alla eccezionalità della nullità totale, appare conforme altresì sia al disposto di cui all’art. 1419, co. 2, c.c., che non richiede una espressa previsione della sostituzione della clausola nulla con disposizioni inderogabili, sia al principio fissato dall’art. 1339 c.c., che riveste una portata generale nel quadro della etero-integrazione della regolamentazione contrattuale.Quanto alle conseguenze della conversione, i giudici della Cassazione richiamano il tema dello ius superveniens, sancendo l’applicabilità delle norme che il cd. collegato lavoro (L. 183/2010) dispone in ipotesi di conversione giudiziale del rapporto di lavoro (art. 32). Ne consegue, pertanto, la condanna del datore di lavoro al pagamento in favore del lavoratore di una somma compresa fra le 2,5 e le 12 mensilità a titolo di indennità omnicomprensiva, la quale viene ad assumere una chiara valenza sanzionatoria, essendo dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno (laddove il lavoratore abbia prontamente reperito un’altra occupazione), per il solo fatto della conversione del rapporto di lavoro. Detta indennità, in sostanza, si pone come una sorta di penale stabilita dalla legge, in stretta connessione funzionale con la declaratoria di conversione del rapporto di lavoro, a carico del datore di lavoro per la nullità del termine apposto al contratto di lavoro, a prescindere sia dall’esistenza del danno effettivamente subito dal lavoratore sia dalla messa in mora del datore di lavoro. Determinata in un importo «forfettizzato», «omnicomprensivo» di ogni potenziale danno scaturente dalla nullità del termine, essa è dovuta al lavoratore per il periodo che intercorre dalla data di interruzione del rapporto di lavoro fino a quella dell’accertamento giudiziale del suo diritto al riconoscimento della durata indeterminata del rapporto medesimo.

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    Carlo
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