Il potere disciplinare nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato
1. Il potere disciplinare nell’ordinamento italiano
In generale il potere disciplinare rappresenta il rapporto di supremazia per cui un soggetto può, con suo atto unilaterale, determinare conseguenze in senso lato negative nella sfera soggettiva di un altro soggetto, in ragione di un comportamento negligente o colpevole di quest’ultimo.
Il potere disciplinare – una delle attribuzioni tipiche riconosciute dall’ordinamento al datore di lavoro nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato – è regolato nel nostro ordinamento dall’art. 2106 c.c..
Il potere disciplinare rappresenta una forma di autotutela unilaterale a favore di una delle parti, fattispecie piuttosto anomala nel diritto privato, e trova la propria giustificazione nella particolarità del rapporto di lavoro, cioè un rapporto contrattuale caratterizzato dall’inserimento del lavoratore all’interno della struttura organizzativa aziendale e dalla conseguente necessità di governo dell’impresa da parte dell’imprenditore.
L’art. 2104 c.c., relativo alla diligenza del prestatore di lavoro, stabilisce che il prestatore di lavoro non solo deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta e dall’interesse dell’impresa, ma è tenuto anche ad osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.
L’art. 2105 c.c., che concerne l’obbligo di fedeltà, impone al prestatore di lavoro di non trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né di divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o di farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
L’art. 2106 cod. civ. stabilisce che l’inosservanza dei doveri di diligenza, di obbedienza o dell’obbligo di fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ. espone il lavoratore all’applicazione di sanzioni disciplinari di entità proporzionata alla gravità dell’infrazione commessa.
L’art. 2106 c.c. è quindi la fonte normativa primaria del potere disciplinare del datore di lavoro: in breve il potere disciplinare è legittimamente esercitato solo se volto a sanzionare la violazione di un obbligo del lavoratore derivante dal contratto di lavoro.
Inoltre da un punto di vista procedurale il potere disciplinare è regolato attraverso l’art. 7 dellla L.300/1970 (il cd. Statuto dei Lavoratori), secondo il quale l’esercizio del potere disciplinare e l’irrogazione della eventuale sanzione devono avvenire nel rispetto di limiti e condizioni prestabiliti, a pena di nullità.
2. La diligenza ed il dovere di obbedienza del lavoratore
La diligenza del lavoratore, secondo il più generale principio di cui all’art. 1176 c.c., corrisponde alla capacità tecnico professionale connaturata alla prestazione dovuta ed alla qualifica attribuita al lavoratore.
Nel valutare l’adempimento dell’obbligo di diligenza occorre tenere conto della concreta natura delle mansioni affidate al lavoratore e della difficoltà delle stesse e delle particolari esigenze dell’organizzazione in cui il rapporto si inserisce.
La giurisprudenza ha più volte sottolineato che il lavoratore è tenuto anche all’esecuzione dei comportamenti accessori che si rendano necessari in relazione all’interesse del datore di lavoro ad un utile prestazione con il limite di quei comportamenti che formino oggetto delle specifiche mansioni di altri lavoratori.
La mancanza di diligenza, ossia la negligenza, comprensiva dell’imperizia può dar luogo non solo a provvedimenti disciplinari, ma anche al risarcimento del danno concretamente arrecato al datore di lavoro.
L’obbligo di obbedienza del lavoratore ha per oggetto le prescrizioni e gli ordini impartiti dal datore di lavoro o dai superiori gerarchici in relazione all’organizzazione del lavoro, alla disciplina ed alla vita di relazione in azienda.
Le prescrizioni cui il lavoratore ha l’obbligo di conformarsi possono essere emesse:
3. La predeterminazione delle norme disciplinari (il cd. codice disciplinare)
Il codice disciplinare è un documento che riassume nel dettaglio i comportamenti vietati (le cd. infrazioni), costituenti ab origine inadempimento contrattuale, e pertanto passibili di specifiche sanzioni, anch’esse compiutamente delineate in corrispondenza di ciascuna potenziale infrazione.
Il codice disciplinare deve essere predeterminato, cioè definito precedentemente all’infrazione. Tale definizione può essere effettuata, in assenza di normativa di fonte collettiva applicabile, a cura del datore di lavoro, ovvero attraverso il contratto collettivo nazionale (caso più frequente nella pratica), con semplice ricezione da parte del datore di lavoro. Tale prassi soddisfa l’obbligo di affissione se ed in quanto le norme del C.c.n.l. in materia di sanzioni disciplinari rispondono ai requisiti di contenuto previsti dall’art. 7 della L.300/1970.
Talvolta accade che le previsioni del contratto collettivo nazionale siano integrate ad iniziativa del datore di lavoro (ad esempio attraverso l’emanazione di specifici regolamenti interni).
Non è necessario che il codice disciplinare contenga una analitica e specifica predeterminazione delle infrazioni e delle corrispondenti sanzioni, essendo sufficiente per la sua validità: (i) che esso sia stato redatto in forma che renda chiare le ipotesi di infrazioni, sia pur dando una nozione schematica e non dettagliata delle varie prevedibili o possibili azioni del singolo, e (ii) che indichi, in corrispondenza, le previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze.
4. L’affissione del codice disciplinare
Per il legittimo esercizio del potere disciplinare il datore di lavoro ha l’onere di portare a conoscenza dei lavoratori, mediante affissione in luogo accessibile a tutti, ilin tal caso la provvedimento;e per il lavoratore eventall’ codice disciplinare. L’affissione è un requisito necessario, dal momento che la giurisprudenza ha ritenuto non sufficienti i “mezzi equipollenti di comunicazione” (per esempio, la consegna diretta del C.c.n.l. ad ogni singolo lavoratore).
L’affissione ha l’obiettivo di impedire una arbitraria valutazione dei comportamenti e quindi l’adozione di sanzioni inique. La mancata affissione comporta l’illegittimità, insanabile, del provvedimento disciplinare, salvo il caso in cui l’infrazione consista in violazione di norme di legge.
5. L’obbligo di contestazione dell’addebito in via preventiva
La contestazione dell’addebito è l’atto formale con il quale il datore di lavoro imputa al lavoratore il compimento di un’infrazione.
L’art. 7 comma 2 dello Statuto dei Lavoratori prevede che il datore di lavoro non possa adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza avergli dato la possibilità di essere sentito a sua difesa.
Per tutte le sanzioni, ad eccezione del “rimprovero verbale” (a meno che il contratto collettivo nazionale applicato non stabilisca diversamente), va adottata una peculiare procedura, da seguirsi scrupolosamente, che prevede: (a) la contestazione del fatto e dell’eventuale recidiva; (b) l’attesa di eventuali difese (entro 5 giorni); (c) l’adozione del provvedimento (con motivazione, se il contratto collettivo nazionale applicato la richiede e se il lavoratore ha esercitato il diritto di difesa); (d) l’applicazione effettiva della sanzione (se non impugnata entro 20 gg.).
6. Le caratteristiche della contestazione: tempestività, specificità, immutabilità, forma scritta
La contestazione dell’addebito deve avere il requisito della tempestività, intesa quale stretta connessione temporale con l’evento, da intendersi però in senso relativo, secondo il criterio della c.d. “ragionevole immediatezza”.
La tempestività risponde “all’esigenza di tutelare l’interesse del lavoratore a che il procedimento intervenga in tempi brevi, al fine di consentirgli, per il più preciso ricordo dei fatti, una difesa più agevole”.
Un ritardo tra infrazione e contestazione è accettabile quando siano necessari complessi accertamenti ispettivi ovvero quando dipenda dal protrarsi di trattative per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, poi risultate vane. Deve però considerarsi non giustificato un ritardo imputabile ad omissioni poste in essere dai superiori gerarchici del lavoratore.
Il giudizio di tempestività deve essere dato prendendo come punto di partenza il momento della conoscenza del fatto, non quello di accadimento.
In caso di illecito penale la Suprema Corte ha recentemente affermato che: “La tempestività della contestazione di cui all’articolo 7, comma 2 della L.300/1970 va valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore, costituenti illecito disciplinare, appaiono ragionevolmente sussistenti. Quando il fatto costituente illecito disciplinare ha anche rilevanza penale, il principio dell’immediatezza della contestazione non può considerarsi violato quando il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all’esame del giudice penale, sempre che lo stesso si attivi non appena la comunicazione dell’esito delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere ragionevolmente sussistente l’illecito disciplinare, non dovendo egli attendere la conclusione del processo penale”.
La contestazione deve inoltre essere caratterizzata dalla specificità. L’addebito deve quindi essere preciso ed obiettivo, comprensivo di tutte le indicazioni necessarie per individuare nella sua materialità storica il comportamento commissivo ovvero omissivo identificabile come infrazione.
Sul punto è opportuno chiarire che: (i) la specificità non implica l’obbligo di indicare le norme legali ovvero contrattuali che si reputano violate; (ii) non devono essere rese note al lavoratore le prove dell’addebito; e (iii) non deve essere necessariamente indicata la sanzione applicabile.
Il fatto contestato non può essere modificato successivamente, in occasione della sanzione, con conseguente irrilevanza a tal fine di circostanze ulteriori, pur contestuali, non ritualmente citate nella contestazione. Peraltro la Cassazione ha affermato che: “Non si può ritenere che vi sia violazione del principio di immutabilità dei fatti contestati per la mera divergenza esistente fra quelli posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare, senza aver accertato se ciò comporti, in concreto, una violazione del diritto di difesa del lavoratore”.
Infine per la contestazione è prevista la forma scritta ad substantiam (cioè necessaria perché sia valido il provvedimento). Non sono tuttavia indicate le modalità di consegna al lavoratore dell’atto scritto contenente la contestazione, onde è ammessa ogni forma di comunicazione (raccomandata con ricevuta di ritorno, consegna a mani proprie del lavoratore effettuata da persona incaricata dal datore di lavoro) salvo diversa previsione della contrattazione collettiva, tenendo conto che è un atto di natura recettizia e pertanto produce “effetti” solo al momento del ricevimento da parte del destinatario.
L’atto scritto può essere consegnato da persona incaricata dal datore di lavoro, la quale può essere assunta come teste ai fini della prova dell’avvenuta consegna.
7. Il diritto di difesa del lavoratore
I provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa (salvo il termine di maggior favore per il lavoratore eventualmente stabilito dal C.c.n.l.).
Il termine ha la finalità di permettere al lavoratore di articolare la propria difesa rispetto a quanto contestato. Il lavoratore avrà altresì la possibilità di integrare, in detto arco di tempo, le osservazioni già avanzate.
In alcuni casi, per garantire la pienezza del diritto alla difesa, la possibilità di integrazione delle giustificazioni può essere estesa anche oltre la scadenza del termine.
Tale termine non deve tuttavia essere necessariamente rispettato qualora prima della scadenza dello stesso il lavoratore abbia fatto pervenire le proprie discolpe senza fare riserva di ulteriori deduzioni.
La difesa rispetto alla contestazione disciplinare rappresenta una mera facoltà, il cui esercizio è a discrezione del lavoratore. Perciò se il lavoratore resta inerte, il datore di lavoro non ha l’onere di attivarsi, sollecitandolo.
La difesa del lavoratore può avvenire con libertà di forma: orale o per iscritto, con o senza l’assistenza sindacale (il lavoratore, nell’esporre le proprie ragioni difensive, può infatti farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato).
8. L’adozione del provvedimento disciplinare
Il provvedimento disciplinare è un atto scritto con il quale si comunica al lavoratore l’irrogazione di una determinata sanzione, scelta nell’ambito di quelle previste dal C.c.n.l. (ovvero dal codice disciplinare), precisando la tipologia della stessa.
Il provvedimento disciplinare deve essere assunto non prima di 5 giorni (di calendario) dalla contestazione per iscritto del fatto.
Il conteggio va effettuato a partire dal momento di effettiva ricezione dell’atto, con esclusione del “giorno iniziale” (dies a quo) e del “giorno finale” (dies ad quem) (art. 2963 c.c.).
In linea di principio non è imposto un termine “massimo” entro il quale infliggere la sanzione (un limite massimo è peraltro previsto da molti C.c.n.l. quale disciplina integrativa delle previsioni dello Statuto dei Lavoratori). In assenza di C.c.n.l. applicabile un termine massimo può essere individuato nei due anni di cui all’art. 7, ultimo comma dello Statuto dei lavoratori.
Il procedimento disciplinare affetto da nullità per vizi di forma può essere rinnovato dal datore di lavoro per gli stessi fatti che avevano determinato la prima sanzione.
Una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti di un lavoratore, per gli stessi fatti non è ammessa una nuova contestazione, mutuandosi anche nell’ambito del procedimento disciplinare il principio penalistico del ne bis in idem.
Il comma 8 dell’articolo 7 dello Statuto dispone che non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione (c.d. recidiva). Caso diverso dalla recidiva è il riferimento a precedenti comportamenti che possono essere richiamati, ad esempio, ai fini della valutazione della complessiva gravità, anche sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità o meno del correlato provvedimento sanzionatorio.
9. L’applicazione della sanzione
L’applicazione della sanzione rappresenta la materiale esecuzione del potere disciplinare: è in sintesi la concreta “espiazione della pena”. Salvo diversa previsione contenuta nei contratti collettivi le sanzioni disciplinari che vengono nella pratica più frequentemente irrogate sono:
I C.c.n.l. hanno in concreto elaborato la scala sanzionatoria, introducendo ulteriori fattispecie (ammonizione scritta) e rivedendo, di solito, i valori massimi.
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte: “Le sanzioni disciplinari non trovano il loro fondamento nelle regole generali dei rapporti contrattuali, non sono assimilabili alle penali di cui all’art. 1382 cc., e non hanno una funzione risarcitoria, ma, grazie ad una portata afflittiva innanzitutto sul piano morale, hanno essenzialmente la funzione di diffidare dal compimento di ulteriori violazioni”.
Pertanto non è possibile il trasferimento del lavoratore o il cambiamento di mansioni come “sanzione” disciplinare vera e propria, mentre è lecito in casi particolari pervenire al c.d. “licenziamento disciplinare”, cioè alla risoluzione del rapporto.
La sospensione cautelare non costituisce sanzione disciplinare (a differenza della sospensione dal servizio) e non è pertanto soggetta alla procedura prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori. Se essa è prevista dalla contrattazione collettiva sarà quest’ultima a regolarne la procedura per l’irrogazione.
La giurisprudenza ha ritenuto legittime le clausole dei contratti collettivi che prevedono per il periodo di sospensione cautelare la contestuale sospensione dell’obbligazione retributiva, fermo restando il diritto del lavoratore alle retribuzioni arretrate qualora venga riammesso in servizio.
Per quanto concerne gli indici per la valutazione della congruità della sanzione, la giurisprudenza ha focalizzato la propria attenzione su:
10. La “proporzionalità” delle sanzioni
La “proporzionalità” delle sanzioni è un principio direttamente desumibile dall’art. 2106 c.c. per cui l’applicazione delle sanzioni disciplinari deve avvenire “secondo la gravità dell’infrazione”.
La proporzionalità tra sanzione irrogata e infrazione è sindacabile dal giudice, in caso di impugnazione della sanzione.
L’art. 7, comma 4 dello Statuto dei Lavoratori vieta comunque: (i) l’irrogazione di sanzioni che comportino mutamenti definitivi del rapporto; (ii) le sospensioni dal servizio e dalla retribuzione per periodi superiori a 10 giorni; (iii) le multe per importi superiori a 4 ore di retribuzione base.
Eventuali differenze nelle sanzioni per lavoratori cui è stato contestato lo stesso fatto, pur essendo in linea di principio ammissibili, debbono essere giustificate con una adeguata motivazione.
11. Il licenziamento disciplinare
Il licenziamento disciplinare nel nostro ordinamento è stato “introdotto” grazie all’intervento della Corte Costituzionale, che con la sentenza del 30 novembre 1982, n. 204 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, commi da 1 a 3, dello Statuto dei lavoratori che limitava la procedura disciplinare alle sole sanzioni conservative (escludendo quindi implicitamente il licenziamento).
Sostanzialmente sono riconducibili al licenziamento disciplinare i licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo dovuti alla violazione di obblighi contrattuali.
In sintesi, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale, qualora il datore di lavoro intenda procedere al licenziamento per grave inadempienza del lavoratore, dovrà contestare per iscritto al lavoratore l’addebito secondo le regole generali ed i termini stabiliti dallo Statuto dei Lavoratori.
Il licenziamento intimato senza il rispetto di tali norme è nullo e comporta, pertanto e secondo i casi, la reintegrazione nel posto di lavoro o relativa indennità sostitutiva ovvero l’obbligo di riassunzione o di risarcimento del danno.
Unica differenza con la procedura generale è l’esclusione dell’obbligo di redazione ed affissione del codice disciplinare per quei fatti il cui divieto risiede non già nelle fonti collettive o nelle determinazioni del datore di lavoro, bensì nella coscienza sociale quale minimo etico ovvero quale illecito penalmente rilevante.
12. L’impugnazione della sanzione
L’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori prevede, ai commi 6 e 7, che il lavoratore, una volta irrogata la sanzione, ha tre possibilità, alternative, di ricorso: (a) ricorrere – anche per mezzo dell’associazione sindacale cui ha aderito o conferito mandato – alle procedure conciliative previste dai contratti collettivi; (b) adire il Collegio di conciliazione ed arbitrato nei 20 giorni dalla comunicazione del provvedimento (in tal caso la sanzione rimane sospesa e se entro 10 gg. dall’invito della Direzione del lavoro, il datore non procede alla nomina del proprio rappresentante in seno al collegio, ovvero non ricorre nel medesimo termine al giudice, la sanzione si estingue automaticamente); ovvero (c) adire il Giudice nel normale termine prescrizionale (in tal caso la sanzione non rimane sospesa).
La costituzione del Collegio di conciliazione avviene tramite la Direzione provinciale del lavoro: il collegio sarà composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo; in difetto di accordo il terzo membro sarà nominato dal Direttore della Direzione provinciale del lavoro.
Se entro 10 giorni dall’invito rivolto al datore di lavoro dalla Direzione provinciale del lavoro a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio, questo non provvede, la sanzione disciplinare non ha effetto.
Sul punto la giurisprudenza ha osservato che: “L’art. 7, comma 6, prevede un arbitrato irrituale, con il conferimento agli arbitri del potere di decidere la controversia in via transattiva, attraverso una manifestazione di volontà negoziale e con la possibilità oltre che di annullare la sanzione, anche di ridurla (ma non già di aumentarla). Pertanto in sede giudiziaria non si possono sindacare le valutazioni di merito affidate alla discrezionalità degli arbitri, mentre rimane salvo il controllo sia sull’esistenza di vizi idonei ad inficiare la determinazione degli arbitri per alterata percezione o falsa rappresentazione dei fatti, sia sull’osservanza delle disposizioni inderogabili di legge ovvero di contratti o accordi collettivi”.
Inoltre: “Ove il lavoratore abbia impugnato una sanzione disciplinare richiedendo la costituzione del collegio arbitrale, la sanzione non ha effetto se il datore non provvede, entro 10 giorni dall’invito da parte dell’ufficio provinciale del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio. Peraltro, spetta al lavoratore l’onere di provare l’avvenuta scadenza del termine suddetto”.