La Corte di Cassazione, SS.UU. civili, solleva questione di legittimità costituzionale – in relazione sia agli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost., sia al parametro della ragionevolezza (art. 3, co. 2, Cost) – degli artt. 1 e 2, L. 339/2003. La legge censurata non consente più l’esercizio della professione forense ai dipendenti pubblici part-time; per coloro i quali, già pubblici dipendenti part-time, avevano invece ottenuto l’iscrizione dopo la data di entrata in vigore della L.662/1996, l’art. 2 della legge censurata stabilisce: a) opzione per il mantenimento del rapporto d’impiego, da comunicare al consiglio dell’ordine d’iscrizione entro trentasei mesi, pena la cancellazione dall’albo, con diritto alla reintegrazione nel rapporto di lavoro a tempo pieno; b) opzione, entro lo stesso termine, per la cessazione del rapporto d’impiego e conseguente mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati, salva la conservazione per un ulteriore quinquennio del diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno entro tre mesi dalla richiesta. La Corte rimettente ritiene leso il legittimo affidamento – fondato sulla situazione normativa preesistente – riposto dai soggetti che già si trovavano nello stato di avvocati part-time, rispetto alla possibilità di proseguire nel tempo nel mantenimento di detto stato, con conseguente violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) nonché degli artt. 4, 35 e 41 Cost.
Le questioni non sono fondate.
Gli artt. 4 e 35 Cost – nel garantire il diritto al lavoro – ne rimettono l’attuazione, quanto ai tempi e ai modi, alla “discrezionalità del Legislatore”; la normativa nazionale, che preclude l’esercizio della professione forense ai dipendenti pubblici a tempo parziale, «rientra nelle regole di cui all’art. 8 della direttiva 98/05, almeno nei limiti in cui […] concerne l’esercizio concomitante della professione forense e di un impiego presso un’impresa pubblica» (Corte di giustizia UE, sezione quinta, 2 dicembre 2010, in causa C-225/2009, punto 60).
Esclusa anche la sussistenza dell’asserito contrasto con l’art. 41 Cost: i dipendenti pubblici infatti «non svolgono servizi configuranti un’attività economica e la loro attività non può essere considerata come quella di un’impresa».
Né v’è lesione, infine, dell’affidamento. Il valore del legittimo affidamento riposto nella sicurezza giuridica trova copertura costituzionale nell’art. 3 Cost, non già però in termini assoluti e inderogabili: la fiducia nella permanenza nel tempo di un determinato assetto regolatorio dev’essere consolidata e l’intervento normativo incidente su di esso deve risultare sproporzionato: «non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti» con la sola condizione es «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto» (cfr. Corte cost., sentt. 302/2010; 236 e 206/2009). In specie, la normativa transitoria dettata dall’art. 2 della legge censurata ha concesso ai dipendenti pubblici part-time, già iscritti all’albo degli avvocati, un primo periodo di durata triennale – onde esercitare l’opzione per l’uno o per l’altro percorso professionale – ed ancora un altro di durata quinquennale, ai fini dell’eventuale richiesta di rientro in servizio. Secondo la Corte, tale disciplina “soddisfa pienamente i requisiti di non irragionevolezza della scelta normativa di carattere inderogabilmente ostativo sottesa alla L. n. 339 del 2003”. Ed infatti – a fronte di un’interdizione generalizzata all’esercizio contemporaneo delle due attività – i soggetti interessati hanno avuto il tempo “per valutare presupposti e situazioni, personali e familiari, idonei ad orientarne la scelta verso il mantenimento del rapporto di lavoro pubblico piuttosto che verso l’esercizio esclusivo della professione forense, con la disponibilità di uno spatium deliberandi supplementare nella direzione della più stabile opzione lavorativa alle dipendenze della pubblica amministrazione, in caso di preferenza inizialmente manifestata per la più rischiosa attività libero-professionale”.
Il regime legislativo di tutela è dunque tale “da ritenere assolutamente adeguato a contemperare la doverosa applicazione del divieto generalizzato reintrodotto dal legislatore per l’avvenire (con effetto, altresì, sui rapporti di durata in corso) con le esigenze organizzative di lavoro e di vita dei dipendenti pubblici a tempo parziale, già ammessi dalla legge dell’epoca all’esercizio della professione legale”.
Pertanto la Corte costituzionale dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2, L. 339/2003 (cfr. “Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato”) come sollevate dalla Corte di Cassazione, SS.UU. civili.