Aderendo al prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha precisato che, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40/2006, nei casi previsti dall’art. 360, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4) c.p.c., l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, che deve essere idoneo a far comprendere alla S.C., dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e a far comprendere quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare. Per la realizzazione di tale finalità, il quesito deve contenere la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice a quo e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare alla fattispecie. Nel suo contenuto, inoltre, il quesito deve essere caratterizzato da un sufficienza dell’esposizione riassuntiva degli elementi di fatto e da una enunciazione in termini idonei a consentire che la risposta ad esso comporti univocamente l’accoglimento o il rigetto del motivo al quale attiene. Ne consegue, proseguono gli Ermellini, che è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito o in modo tale da richiedere alla S.C. un inammissibile accertamento di fatto o, infine, sia formulato in modo del tutto generico.
Inoltre, la Corte ha avuto altresì cura di precisare che non è sufficiente che tale il fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata. Invero, come più volte osservato dai giudici di legittimità, nel vigore dell’art. 366 bis c.p.c., non puo’ ritenersi sufficiente – perché possa dirsi osservato il precetto di tale disposizione – la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dall’esposizione del motivo di ricorso, né che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie. Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis, secondo cui è invece necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la S.C. e chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40/2006 ha inteso valorizzare. In altri termini, il quesito deve essere formulato in modo tale da consentire l’individuazione del principio di diritto censurato e posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del principio, diverso da quello, la cui auspicata applicazione da parte della S.C. possa condurre a una decisione di segno inverso. Ove tale articolazione logico-giuridica mancasse, infatti, il quesito si risolverebbe in una astratta petizione di principio, inidonea sia a evidenziare il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successive enunciazione di tale principio a opera della S.C. in funzione nomofilattica.