L’art. 2272 cod. civ. elenca le cause che comportano lo scioglimento delle società di persone, che possono essere così riassunte:
decorso del termine;
conseguimento dell’oggetto sociale o sopravvenuta impossibilità di conseguirlo;
volontà di tutti i soci nonché (fattispecie che qui interessa in relazione al caso trattato); mancanza della pluralità dei soci, se nel termine di sei mesi questa non venga ricostituita.
Alle summenzionate casistiche deve aggiungersi, nel caso specifico della s.a.s., il caso relativo al venir meno di una categoria di soci (art. 2323 cod. civ.).
L’importanza della volontà del socio superstite
E’ rilevante capire la volontà del socio superstite, il quale potrebbe voler:
a) continuare l’attività con altro/i socio/i ricostituendo così la pluralità dei soci;
b) sciogliere la società svolgendo di fatto una liquidazione;
c) continuare l’attività ma “individualmente”.
Continuazione dell’attività con altro/i socio/i
Nel caso previsto sub a), all’interessato la norma mette a disposizione il termine di sei mesi dall’“evento” entro cui ricostituire la pluralità dei soci, durante il quale la società continua a esistere senza entrare in stato di liquidazione.
Nel frattempo, il socio superstite si “farà carico” di tutte le posizioni della società, oltre ad assumere tutti i poteri di amministrazione e rappresentanza che prima spettavano congiuntamente (2257 cod. civ.) o disgiuntamente (2258 cod. civ.) alla pluralità soci.
Una volta trascorsi i sei mesi senza che la pluralità sia stata ricostituita, si verifica lo scioglimento della società.
A tal proposito si inserisce una recente “disposizione” che di fatto allarga il termine di sei mesi.
Infatti, l’Osservatorio sulla riforma del diritto societario ha redatto una massima – a cura dei Conservatori dei registri delle imprese della Lombardia e del Comitato regionale notarile Lombardo – sugli «aspetti pubblicitari della mancata ricostituzione della pluralità dei soci nel termine di sei mesi nelle società di persone» con la quale sostanzialmente ha previsto che la ricostituzione della pluralità dei soci è sempre possibile, anche oltre i sei mesi, «fino all’avvenuta cancellazione da parte del Registro delle imprese».
Nel caso della s.a.s., come anticipato, sussiste una particolare causa di scioglimento, che si avvera al venir meno di una categoria di soci. Tale evento non produce i suoi effetti immediatamente ma rinvia, anche qui, alla “scadenza” dei sei mesi: in caso di ricostituzione entro tale termine, quest’ultima opera in via retroattiva poiché viene considerata come avvenuta al verificarsi del fatto stesso.
In caso contrario la società si scioglie aprendosi il processo di liquidazione.
Il comportamento del socio superstite nel periodo antecedente la ricostituzione.
Nell’arco temporale dei sei mesi il socio superstite, in generale, può continuare normalmente l’attività dell’impresa svolgendo, di fatto, tutte le attività necessarie al raggiungimento dello scopo sociale.
Nel caso della s.a.s. il comportamento del socio superstite differisce a seconda che si tratti del socio accomandante o del socio accomandatario.
Mancanza dei soci accomandatari
Nel primo caso, gli accomandanti devono nominare un amministratore provvisorio entro il termine di sei mesi da quando è venuto a mancare l’accomandatario.
Tale nomina va fatta formalmente e va debitamente iscritta al Registro delle imprese. In dottrina si è affermato che il comportamento concludente sostituisce la nomina formale.
La ricostituzione della pluralità dei soci è possibile anche dopo i sei mesi e fino alla cancellazione d’ufficio da parte del Registro delle imprese .
Tale amministratore può essere un terzo non socio (c.d. “amministratore esterno”).
Per la dottrina prevalente l’amministratore provvisorio può anche essere il socio accomandante (c.d. “amministratore interno”).
In entrambi i casi (amministratore “esterno” o “interno”), l’amministratore provvisorio non sarà esposto al rischio della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, così come non assumerà responsabilità personali in quanto non rivestirà la qualifica di accomandatario, a condizione che mantenga la sua attività nei limiti dell’ordinaria amministrazione e per il periodo di sei mesi così come previsto dall’art. 2323 cod. civ.
Con riferimento all’amministratore “interno”, è stato osservato che la deroga a favore del socio accomandante al divieto di immistione previsto dall’art. 2320 cod. civ. è ammessa solo nell’ipotesi eccezionale in cui la società sia rimasta senza accomandatari, a condizione che l’accomandante/amministratore provvisorio non ecceda l’ordinaria amministrazione, che l’incarico non vada oltre i sei mesi in quanto, se dovesse eccedere, perderebbe il beneficio della responsabilità limitata venendo sanzionato in base al già citato art. 2320 cod. civ. Inoltre, se il superamento dei limiti di cui all’art. 2323 cod. civ. fosse avvenuto con il consenso degli altri soci, assumerebbe la qualifica di socio accomandatario, ricostituendosi così anche la seconda categoria di soci.
Nel caso in cui, invece, l’amministratore “esterno” dovesse compiere atti che esulano dall’ordinaria amministrazione bisognerà innanzitutto verificare se ha agito senza il consenso o con il consenso dei soci superstiti.
Nel primo caso, sarà responsabile per i danni subiti dal terzo che, in buona fede e senza colpa, ha posto in essere operazioni con lo stesso amministratore provvisorio, oltre ad essere responsabile per aver agito nella veste di rappresentante senza potere. In questo caso, i soci che l’hanno nominato potrebbero revocarlo.
Nel secondo caso, rivestirà la qualifica di accomandatario vedendosi applicare quanto previsto dalla normativa per tale categoria di soci.
In ogni caso, la prosecuzione dell’attività oltre il termine di sei mesi, dietro consenso della categoria degli accomandanti, per l’amministratore provvisorio costituisce l’assunzione della qualifica di socio accomandatario.
Mancanza dei soci accomandanti
Se a mancare è invece la categoria degli accomandanti, per gli accomandatari si presenta un duplice scenario:
Scioglimento della società
Nell’ipotesi in cui non si riuscisse a ricostituire la pluralità dei soci (e fatti salvi i casi di trasformazione “automatica” da s.a.s. ad s.n.c. appena descritti), la società si scioglierebbe. In questo caso l’iter da seguire prevede che la cessazione dell’attività venga sancita attraverso un atto formale con cui il socio invia al Registro delle imprese un’istanza di cancellazione motivandola con l’avvenuta cessazione dell’attività sociale e
con l’insussistenza di attività da liquidare o di passività da pagare.
Continuazione dell’attività da parte del socio superstite
Viene da chiedersi cosa succeda nel caso in cui l’unico socio superstite non dovesse provvedere alla ricostituzione della pluralità dei soci (o non ci riuscisse) andando avanti da solo nell’attività: ci troveremmo di fronte, di fatto, ad un’impresa individuale.
Le problematiche connesse a questo “passaggio” rilevano dal punto di vista giuridico prima che fiscale: bisognerà determinare che fine facciano i rapporti giuridici precedentemente in capo alla società e capire se continuino con la nuova “entità”.
Si tratta, quindi, di determinare se ci si trova di fronte a una trasformazione, assegnazione o cessione. Per le ragioni suesposte, dottrina e giurisprudenza hanno prestato (e continuano a farlo) molta attenzione nel cercare di dare una risposta definitiva al quesito.
La giurisprudenza di legittimità sufficientemente recente (Cass. 16 febbraio 2007, nn. 3670 e 3671) ha sancito che la “trasformazione” di una società di persone in ditta individuale non determina la modifica dell’atto costituivo (cosa che avviene nel caso di trasformazione in altro tipo di società) bensì una successione tra soggetti distinti.
Quindi, secondo detta giurisprudenza tale fattispecie non si configura come trasformazione in senso tecnico, bensì come un rapporto di successione tra soggetti distinti, che viene preceduto dallo scioglimento della società e dalla conseguente liquidazione della stessa, concludendosi con l’assegnazione del patrimonio sociale residuo al socio superstite, ai fini della successiva estinzione della società medesima.
In generale, quindi, non sarebbe configurabile un’operazione straordinaria di trasformazione, in quanto costituirebbe una finzione giuridica: infatti, la continuazione dell’azienda, nel caso di specie, è affidata ad un soggetto diverso dalla società preesistente e tale diversità non si rinviene nelle trasformazioni proprie, nelle quali, per quanto profonda possa essere la modifica qualitativa, il soggetto risultante dalla trasformazione resta, comunque, un ente distinto dalle persone fisiche che ne fanno parte.
D’altra parte, risulta difficile ipotizzare che si tratti di “cessione aziendale”, visto che ad “acquistare” sarebbe, da un certo punto di vista, “lo stesso” soggetto che cede.
È il caso di sottolineare, però, che la Cassazione, con sentenza 15 maggio 2008, n. 12213, equipara detta fattispecie alla cessione d’azienda.
A giudizio di chi scrive, ferma restando la tutela dei terzi che, prima, attraverso una liquidazione o, dopo, attraverso la continuazione dell’attività, dovranno vedere soddisfatti i loro crediti, tutte queste ipotesi contemplano validi punti di forza ma allo stesso tempo presentano delle lacune che non consentono una rappresentazione puntuale della situazione.
Probabilmente l’ipotesi che meglio fotografa la fattispecie è l’assegnazione aziendale in quanto, a ben vedere, il socio che continua l’attività dovrà farsi, comunque, carico delle posizioni della società ponendo in essere una sorta di liquidazione degli attivi/passivi della “vecchia” entità contestualmente allo svolgimento dell’attività della stessa.
La già citata sentenza della Cassazione n. 12213/2008, richiamando una precedente pronuncia dello stesso organo (n. 3670/2007) precisa che configura un’ipotesi di assegnazione di azienda l’atto con il quale uno dei soci recede «da una società in nome collettivo composta da due soli soci, dando quietanza dell’avvenuta liquidazione della quota, mentre l’altro contestualmente dichiari di non voler ricostituire la società, ma di voler proseguire in proprio, quale imprenditore individuale, l’attività d’impresa (…)».