INFORTUNIO SUL LAVORO, CASSAZIONE RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO
Con sentenza del 5 settembre 2013 numero 36394 la Corte di Cassazione confermava la pronuncia della Corte di Appello di Ancona del 17 maggio 2012 con la quale veniva riconosciuta la penale responsabilità del legale rappresentante in carica di società a responsabilità limitata, ai sensi del combinato disposto degli articoli 40 cpv. e 590 commi primo, secondo, terzo e quinto del codice penale, per colpa generica e per violazione specifica delle norme anti-infortunistiche di cui all’articolo 2087 del codice civile e 68 del D.P.R. 547 del 1955, in conseguenza dell’infortunio occorso, durante lo svolgimento delle proprie mansioni lavorative, ad una dipendente, infortunio da cui derivarono lesioni personali gravi.
Il fatto, nel suo accadimento, riscontra i danni fisici subiti da una lavoratrice che stava utilizzando un macchinario privo di idonee protezioni volte ad impedire che l’operatore venisse con le mani a contatto di “rulli in movimento”.
Il ricorso, proposto dall’imputato, veniva articolato in cinque distinti motivi così, brevemente, riassumibili:
con il primo e il secondo motivo si contestava, in relazione all’articolo 2087 del codice civile (norma di riferimento civilistica) la mancata previsione di uno specifico obbligo da parte del datore di lavoro di adottare misure consistenti nell’applicazione di dispositivi definiti “inamovibili” e che avrebbero precluso la corretta pulizia e manutenzione del macchinario; comunque, non idonei, nel caso concreto e anche se adottati, ad evitare l’accadimento;
con il terzo e quarto motivo, dedotti congiuntamente, il ricorrente denunciava la violazione dell’articolo 521 del codice di procedura penale avendo la sentenza della Corte territoriale motivato la condanna in relazione ad una presunta omissione di vigilanza, circostanza mai contestata in precedenza; in particolare lamentava il ricorrente una distonia, idonea a provocare la nullità della sentenza ex. art. 522 dello stesso codice di rito, tra fatto contestato (messa a disposizione di un macchinario privo di dispositivi di protezione) e fatto preso in esame per la condanna (omessa vigilanza);
con il quinto motivo il ricorrente lamentava il mancato riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche in considerazione della propria incensuratezza.
La Corte, con argomentazione accurata, respingeva tutte le censure mosse dal ricorrente.
Quanto ai primi due motivi la Corte, dopo esame delle testimonianze assunte, riteneva come acclarato e pacifico che il macchinario disponesse di un “carter” di protezione predisposto per evitare incidenti come quello accaduto, dispositivo successivamente rimosso dal datore di lavoro; congegno, invero, che non veniva mai riposizionato per “velocizzare la produzione”, dovendo il macchinario subire frequenti interventi di pulizia. Palese quindi, secondo la Corte, la violazione da parte del datore di lavoro dei doveri di diligenza e di prudenza previsti dall’ordinamento, violazione che avrebbe inciso eziologicamente nella causazione dell’evento. Analogamente, doveva ritenersi violata la norma di cui all’articolo 68 del D.P.R. 547/1955 che impone di segregare, proteggere o comunque dotare di idonei dispositivi di sicurezza quei macchinari i cui “organi lavoratori” possano costituire pericolo per l’incolumità degli addetti.
Collocandosi nel solco di una giurisprudenza ormai consolidata, la Corte, nell’interpretare la disposizione dell’articolo 2087 c.c. come integrante una fondamentale obbligazione del datore di lavoro e di cui l’articolo 68 del citato regolamento non sarebbe che un’applicazione logica, confermava come detta obbligazione non possa ritenersi assolta se non con la dimostrazione, gravante sull’obbligato (datore di lavoro), di avere adottato i più moderni ed efficaci accorgimenti e ritrovati della tecnica e della tecnologica applicata al fine di evitare il danno. Nella specie il macchinario risultava vetusto e tuttavia privo del necessario dispositivo di protezione per volontà riconducibile al ricorrente il quale, per escludere il nesso eziologico e la propria responsabilità, avrebbe dovuto non solo prescrivere di non far funzionare il macchinario senza il dispositivo di protezione e consentire la rimozione dello stesso solo quando non operante (fermo) per il compimento delle operazioni di pulizia, bensì di dotarsi di un ulteriore sistema, in linea con la tecnologia applicata, di “blocco” del funzionamento della macchina in carenza della protezione. Solamente in tale ipotesi e con l’adozione di dette misure, ad opinione della Corte, l’evento non sarebbe occorso, secondo un giudizio compiuto a posteriori e che la Corte, da tempo, qualifica con il termine “controfattuale”.
Quanto al terzo e quarto motivo di censura, la Corte ritiene non sussistere alcuna violazione del diritto di difesa qualora al fatto contestato, fatto che nella sua tipicità e manifestazione rimane il medesimo, si aggiunga, nei reati colposi un profilo di colpa, anche generica, al profilo originariamente oggetto di contestazione. Ben poteva la Corte territoriale aggiungere un profilo di omissione consistente in una culpa in vigilando quale naturale ed ulteriore espressione dell’obbligazione “cardine” prevista dall’articolo 2087 c.c. e dalle normative specifiche. Omissione che consiste nella violazione dell’obbligo connesso al ruolo di garanzia ricoperto dall’imputato nella struttura produttiva, di verificare il rispetto delle disposizioni anti-infortunistiche dallo stesso impartite sia nel documento di valutazione dei rischi sia nel corso dell’attività formativa dei lavoratori.
Né, secondo la Corte, per escludere la responsabilità del ricorrente avrebbe pregio il richiamo alla condotta, negligente, della lavoratrice infortunatasi, quale causa esclusiva dell’evento, per il rilievo, discendente da un consolidato e prevalente indirizzo della stessa Corte, che, nella fattispecie, non sarebbero rinvenibili quelle caratteristiche di imprevedibilità, abnormità, inimmaginabilità ed anomalia della condotta tali da interrompere il nesso di causalità risalente alle omissioni ascrivibili al ricorrente-imputato.
Veniva respinta altresì l’ultima censura sulla quantificazione della pena rispetto alle circostanze, avendo, secondo la Corte, la sentenza gravata evidenziato, nella particolare tenuità della pena inflitta, il rispetto del criterio logico di congruità nella valutazione delle circostanze stesse.
Per consulenza o parere legale, l’avvocato Carlo Bosso è esperto in materia di infortuni sul lavoro.