L’infedeltà di un coniuge giustifica l’addebito della separazione?
Sovente nei procedimenti di separazione personale dei coniugi trova spazio la richiesta finalizzata ad ottenere la declaratoria di addebito in danno al coniuge ritenuto “responsabile” nella causazione della crisi coniugale.
Al riguardo, occorre avere ben chiari quali sono i presupposti per una tale pronuncia poiché, spesso, la crisi coniugale che legittimerebbe la declaratoria di addebito, non dipende causalmente dal comportamento (violativo dei doveri coniugali), di uno solo dei coniugi, ma rappresenta la naturale involuzione di una convivenza ormai solo formale fra i medesimi vittime di un analfabetismo affettivo oramai conclamato.
Nella disciplina del codice del 1942 la separazione giudiziale era prevista per cause tassative di violazione dei doveri familiari (adulterio, volontario abbandono, eccessi, sevizie ecc. ecc.) in tal modo la pronuncia di separazione c.d. per “colpa” rivestiva il crisma della sanzione, collegata al comportamento posto in essere da uno dei coniugi, non assumendo rilievo fatti ulteriori determinanti la crisi del rapporto coniugale. Dopo la riforma del 1975, nel nostro ordinamento, oltre alla separazione di “fatto”, che non produce effetti giuridici, e alla separazione “consensuale”, basata sulla comune volontà dei coniugi, sono presenti due tipologie di separazione “contenziosa”, che hanno il loro presupposto nell’intollerabilità della convivenza o nel grave pregiudizio per la prole (ex art. 151 comma 1°) e possono essere caratterizzate o meno dalla richiesta di addebito. Il carattere dell’eventualità dell’addebito indica la non necessità di tale pronuncia, ma quando essa venga “eccepita” il tema dell’indagine processuale inevitabilmente si estende ad elementi ulteriori rispetto a quelli strettamente legati alla separazione sic et simpliciter. L’accessorietà, invece, seguendo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, deriva dalla considerazione che non sia possibile pronunciarsi sull’addebito se non nell’ambito di un giudizio di separazione e quindi, contestualmente ad essa, nonostante l’autonomia che la contraddistingue (Si veda Cass. Civ. Sez. I, 13 novembre 2009, n. 24105, nella quale viene sancito che :”nel giudizio di separazione personale dei coniugi la richiesta di addebito, pur essendo proponibile nel giudizio di separazione, ha natura di domanda autonoma, rispetto a quella di separazione”).
Per quanto concerne i presupposti che possono condurre all’addebito in capo ad uno dei due coniugi occorre far riferimento all’art. 143 c.c._ Tale norma prevede una serie di doveri derivanti dal matrimonio e, nello specifico, gli obblighi di fedeltà, assistenza morale e materiale (art. 143, comma 2°, c.c.), collaborazione nell’interesse della famiglia (art. 143, comma 3°, c.c.) e coabitazione (art. 146 c.c.), nonché di parità dei coniugi (ex art. 29 Cost.). Ulteriori obblighi sono disseminati all’interno del Codice Civile, ad esempio, il dovere di istruzione ed educazione dei figli (art. 147 c.c.), la tutela dell’ottemperanza ai provvedimenti del giudice adito in caso di disaccordo fra i coniugi (art. 145 c.c.), o, ancora, l’obbligo di concorrere agli oneri per il mantenimento della prole previsto (art. 148 c.c.).
Sovente, la richiesta di addebito della separazione si fonda sulla presunta violazione sia dell’obbligo di fedeltà coniugale sia di coabitazione, proprio perchè l’allontanamento unilaterale dalla residenza coniugale costituisce di per sé violazione di un obbligo matrimoniale e conseguentemente causa di addebito della separazione; tuttavia non può essere fonte di addebito se giustificato: il secondo comma dell’art. 146 c.c., prevede, ad esempio, una causa di giustificazione allorché l’allontanamento sia contestuale alla presentazione di una domanda di separazione o divorzio. La giurisprudenza, inoltre, afferma che tale violazione non sussiste quando risulta legittimata da una “giusta causa”, ovvero, dalla presenza di situazioni di fatto (ma anche di avvenimenti o comportamenti altrui) di per sé incompatibili con la protrazione della convivenza, ossia tali da non rendere esigibile la pretesa di coabitare (Si vedano Cass. Civ. Sez. I 12 agosto 2009, n. 18235; Cass. Civ. Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17056, Cass. Civ. Sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1202; Cass. Civ. Sez. I, 10 giugno 2005, n. 12373). In ogni caso, l’onere di provare la sussistenza della giusta causa incombe alla parte che si è “allontanata”, in relazione al fatto che l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza è dipesa dal comportamento dell’altro coniuge o, comunque, non gli sia imputabile (Si vedano Cass. Civ. Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17056; Cass. Civ. Sez. I, 10 giugno 2005, n. 12373 e Cass. Civ. Sez. I, 29 ottobre 1997, n. 10648).
Per quanto concerne, invece, l’obbligo di fedeltà era (e parzialmente lo è ancora) considerato il preminente tra i doveri derivanti dal matrimonio e indica la tensione alla conservazione dell’unità familiare intesa come comunione materiale e spirituale fra i coniugi. In tali termini, l’obbligo in questione aveva la funzione di caratterizzare “la volontà di piena unione”, di “impegno reciproco”, di “devozione” e di “collaborazione” nei profili personali del rapporto. È perciò riduttivo pensare alla fedeltà solo come ad un obbligo di esclusiva “sessuale”, essendo più corretto ricomprendervi un più ampio impegno di “lealtà”, riferito sia all’altro coniuge, sia alla famiglia nel suo complesso.
Appare, però, doveroso porre in luce che la mentalità moderna ha contribuito alla modifica del “costume” e della morale giungendo a configurare che non qualsiasi violazione all’obbligo di fedeltà rappresenti un motivo sufficiente per l’addebitabilità della separazione ex art. 151 c.c._
In altri termini, recentemente la giurisprudenza ha affermato che, in tema di separazione giudiziale, al fine di ottenere la pronuncia di addebito, oltre alla dimostrazione dell’avvenuta violazione inerenti allo status personale di coniuge ex art. 143, comma 2°, c.c. è necessario altresì la sussistenza di un nesso causale tra la violazione medesima – in questo caso dell’obbligo di fedeltà e di coabitazione – e il fallimento del matrimonio, con l’esclusione di ogni automatismo (Si vedano Cass. Civ. Sez. I, 15 luglio 2010, n. 16614, nella quale si legge :”Nella separazione personale la pronuncia di addebtio non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posti dall’art. 143 c.c. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata e in conseguenza di una situazione di intollerabilità della convivenza, abbia, viceversa, assunto efficacia causale nel determinarsi della crisi del rapporto coniugale”. Cass. Civ. Sez. I, 23 maggio 2008, n. 13431 e Cass. Civ. Sez. I, 27 giugno 2006, n. 14840).
Ciò considerato, il coniuge che in giudizio richieda la pronuncia di addebito deve provare non solo l’avvenuta violazione dei doveri nati dal matrimonio, ma anche e soprattutto l’esclusiva riferibilità ad essa del fallimento del rapporto; in caso contrario verrà pronunciata legittimamente la separazione senza addebito (Si veda Trib. di Benevento, 30 aprile 2009, n. 1109 :”Nel procedimento volto alla separazione dei coniugi compete alla parte che richieda l’accoglimento della domanda di addebito l’assolvimento dell’onere di provare non solo che l’irresistibile crisi del rapporto di connubio sia ascrivibile in via esclusiva alla violazione cosciente e volontaria dei doveri del matrimonio da parte dell’altro coniuge, ma altresì, e soprattutto, di dimostrare che tra detto comportamento e la crisi matrimoniale esista un rapporto di causa ed effetto, con la conseguenza che la mancanza di elementi da cui desumere la sussistenza anche di solo uno di tali presupposti comporta il rigetto della richiesta” o ancora Cass. Civ. Sez. I, 27 giugno 2006, n. 14840, secondo cui :”la dichiarazione di addebito della separazione implica la prova che la irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile esclusivamente al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o di entrambi i coniugi, ovvero che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati e il determinarsi dell’intollerabilità della ulteriore convivenza; pertanto, in caso di mancato raggiungimento della prova che il comportamento contrario ai predetti doveri tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato la causa efficiente del fallimento della convivenza, legittimamente viene pronunciata la separazione senza addebito”. Sempre sul punto e confermando l’orientamento precedente, si veda anche Cass. Civ. Sez. I, 23 maggio 2008, n. 13431).
Tornando alla questione dell’infedeltà di un coniuge ai danni dall’altro, la giurisprudenza afferma che una semplice e casuale violazione di tale obbligo non consente di desumere che la volontà del coniuge sia quella di disgregare la famiglia e distruggerne l’unità (Si veda Cass. Civ. Sez. I, 19 luglio 2010, n. 16873, nella quale si legge :”L’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, determinando di regola l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce in genere circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra l’infedeltà e crisi coniugale, con un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, rimessa al giudice di merito per accertare se vi è la preesistenza d’una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza solo formale”). Come, infatti, affermato dalla giurisprudenza l’esclusiva sessuale non costituirebbe più un elemento essenziale del matrimonio e dalla quale le parti non possano prescindere per una comune scelta (Si vedano Cass. Civ. Sez. I, 19 marzo 2009, n. 6697 e Trib. di Prato, 2 dicembre 2008 n. 1471).
In altri termini, i riferimenti giurisprudenziali indicati evidenziano ormai un diritto vivente in cui l’obbligo di fedeltà non è più strettamente correlato al diritto di esclusiva “fisica”, ma va assumendo sempre più la valenza espressa dai principi di lealtà e rispetto della personalità umana nell’ambito della comunità familiare.
Sotto altro profilo, significative sono le pronunce che attribuiscono rilievo sia all’infedeltà sentimentale, sia all’infedeltà apparente; si è infatti affermato in giurisprudenza che l’infedeltà di uno dei due coniugi potrebbe integrare di per sé la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, ancorché sia rimasta allo stadio del mero tentativo (Si vedano Cass. Civ. Sez. I, 19 marzo 2009, n. 6697; Cass. Civ. Sez. I, 23 maggio 2008, n. 13431). Ciò considerato, l’inevitabile involuzione del rapporto, minato dalla inattitudine reciproca al proseguimento della convivenza coniugale e dal sempre maggiore analfabetismo affettivo, può condurre ad un epilogo tutt’altro che inaspettato, ossia l’instaurarsi di un nuovo legame affettivo, ma non per questo eziologicamente rilevante, singolarmente considerato, a determinare la crisi coniugale (Si veda Trib. di Monza, 18 gennaio 2010, ove si legge che :”in tema di separazione giudiziale, quanto alle condotte rilevanti ai fini dell’addebito, le valutazioni del comportamento riprovevole del coniuge, operata dal giudice, comporterà anche l’esame della condotta dell’altro al fine di comprendere se il comportamento censurato non sia solo l’effetto di una frattura coniugale già verificatasi e possa, pertanto, considerarsi relativamente giustificato”).
A seguito della scomparsa della separazione per “colpa”, per merito della riforma del diritto di famiglia, il concetto di “addebito” della separazione, di cui all’art. 151 comma 2 c.c., come novellato dall’art. 33 della L. 19 maggio 1975, n. 151, non può avere altro significato di quello di “imputabilità”, ovvero, di riferibilità di un atto o di un comportamento cosciente e volontario ad una persona capace di intendere e volere. Il giudice, proprio in forza di tale inciso, prima di pronunciare l’addebito, dovrà esaminare tutte le circostanze che hanno condotto alla crisi familiare e, pertanto, la mera violazione di uno dei doveri coniugali potrebbe non assumere rilevanza, dovendosi, piuttosto, vagliare gli accordi eventualmente intervenuti tra i coniugi in ordine al contenuto che i doveri hanno assunto nella loro convivenza matrimoniale.
Ciò considerato, il giudicante, chiamato a pronunciare l’addebito, deve effettuare una valutazione complessiva e comparativa del rapporto coniugale, valutando, da un lato, le condotte dell’uno e dell’altro coniuge e, dall’altro, rapportare tali comportamenti alla luce delle regole che disciplinano i doveri coniugali, tenendo conto del contenuto che ai citati doveri i coniugi hanno attribuito nello svolgimento del loro ménage. Al termine dell’analisi e qualora accerti in modo chiaro ed univoco che il comportamento trasgressivo posto in essere da uno, o da entrambi i coniugi, abbia reso intollerabile la prosecuzione della convivenza potrà dichiarare che la separazione è addebitabile ad uno o ad entrambi. La valutazione dovrà riferirsi non solo all’accertamento della specifica condotta violativa dei doveri coniugali, ma anche ad una valutazione complessiva dei fatti, circostanze, condizioni personali, al fine di ritenere opportuna e congrua o meno la pronuncia di addebito (Si veda Cass. Civ. Sez. I, 7 dicembre 2007, n. 25618; Cass. Civ. Sez. I, 12 giugno 2006, n. 13592; Cass. Civ. Sez. I, 7 dicembre 2001, n. 14162). La comparazione, in ogni caso, non può valere ad escludere l’addebitabilità della separazione al coniuge che ha posto in essere trasgressioni che, per la loro gravità, non possano essere giustificate come azioni di mero spirito puntiglioso o oziose “ritorsioni”. È certo che per giungere alla soluzione della vertenza, il Giudice dovrà affrontare la realtà fattuale che gli si presenterà basandosi sull’analisi del caso concreto, stante l’impossibilità, in tale materia, di stilare un preciso e rigoroso modello universale da seguire.
Alla luce delle considerazioni fin qui esposte è agevole dedurre che anche qualora il comportamento tenuto da un coniuge integri una violazione alle regole imperative imposte dal vincolo matrimoniale, sul quale fondare la pronuncia di addebito, occorrerà valutare quale impatto tale violazione può avere nell’alveo di un clima familiare deteriorato già da tempo e che l’instaurarsi di una nuova relazione, di per se, non integra la causa scatenante della separazione.
A questo punto è bene chiarire quali siano gli effetti che dispiega la pronuncia di addebito. Le conseguenze, tutt’altro che miti, si manifestano sul piano dei rapporti patrimoniali tra i coniugi. Oltre a perdere il diritto al mantenimento, ex art. 156, comma 1°, c.c. (conservando solo il diritto agli alimenti), è previsto, anche, il venir meno del diritto alla quota di riserva nella successione ex art. 548 c.c. (restando esclusivamente la possibilità di beneficiare solo di un assegno vitalizio) (Si veda, per un esempio applicativo, Cass. Civ. Sez. I, 24 febbraio 2006 n. 4204 e/o si veda Cass. Civ. 25 febbraio 2009, n. 4555 e, in senso conforme, Cass. Civ., 19 marzo 2009, n. 6684). Inoltre, la pronuncia di addebito comporta la condanna alle spese di separazione.
Sul piano personale non vi sono effetti riconducibili all’addebito se non, eventualmente, nell’ipotesi di una pronuncia ex art. 156-bis c.c. (divieto di uso del cognome o autorizzazione a non usarlo).
Si può dunque affermare che le ripercussioni della pronuncia di addebito si riflettono altresì sulla sfera psicologica e morale; poiché alimentano, in un certo senso, la conflittualità fra i coniugi determinando danni e traumi ai figli minori senza contare che tale istituto funge da sarto giuridico che tenta di “vestire” giuridicamente una frattura tra i coniugi distribuendo colpe agli interessati e coinvolgendo terzi (parenti, conoscenti, ecc. ecc) chiamati a testimoniare e sovente “trascina” per anni cause di separazione al fine di stabilire esclusivamente o prevalentemente l’addebitabilità della medesima.