“Quando vinci una causa, non è perchè hai lavorato bene, ma è perchè il cliente aveva ragione….quando perdi, invece, è perchè il cliente aveva ragione, ma tu hai lavorato “male” ” (Cit.)
La deontologia indica una serie di regole alle quali l’avvocato deve attenersi nei rapporti con i clienti, con gli altri avvocati e con i giudici.
E` assodato che la deontologia presuppone la collocazione del rapporto nel quale e` parte l’avvocato in un certo contesto storico, ove assume rilievo l’ambito civile, penale o amministrativo, in cui questo si svolge.
In altri termini, quando si afferma che la deontologia e` cambiata, nel corso del tempo, che e` profondamente mutato il rapporto con cliente, con gli altri avvocati e con i magistrati, non bisogna sottovalutare il fatto che questa trasformazione e` dovuta anche e soprattutto al modo di essere del diritto nel terzo millennio. È innegabile che molti dei cambiamenti intervenuti siano maggiormente avvertiti nei Paesi dell’unione europea che in modo particolare avvertono la difficoltosa articolazione del sistema delle fonti.
Resta ferma l’idea che la funzione dell’avvocato, così come quella della giustizia, debba in primo luogo proteggere l’inviolabilita` di certi diritti, tenuto conto che questi hanno da tempo assunto un carattere universale.
È consolidato in giurisprudenza, il principio secondo il quale l’inadempimento dell’avvocato alle obbligazioni che scaturiscono dal mandato professionale non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato sperato dal cliente, dovendo piuttosto essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale, e così, in particolare, del dovere di diligenza.
La diligenza che l’avvocato deve osservare non si risolve, come noto, in quella ordinaria del buon padre di famiglia, ma quella dell’accorto operatore professionale, ex art. 1176, 2º co., c.c., e deve perciò essere commisurata alla natura dell’attività esercitata e alla preparazione e attenzione superiori alla media che quest’ultima postula.
Già in altre occasioni il Tribunale di Torino ha avuto modo di statuire che“in materia di responsabilità professionale, nella fattispecie dell’avvocato, perché possa dirsi sussistente una tale responsabilità deve necessariamente essere provata la compiuta violazione dei doveri inerenti lo svolgimento della professione forense. In particolare, la violazione del dovere di diligenza va valutata avendo particolare riferimento alla natura dell’attività esercitata, cosicché l’avvocato deve ritenersi responsabile nei confronti del cliente per tutti i casi in cui sia ravvisabile incuria e ignoranza delle disposizioni di legge, nonché negligenza e imperizia tali da aver definitivamente compromesso il buon esito del giudizio. Viceversa, la richiamata responsabilità non sussiste nelle ipotesi di interpretazione o risoluzione di questioni opinabili su cui non vi sia neanche uniformità di veduta delle magistrature superiori” (Trib. Torino 29/01/2009).
Cio` posto, la Suprema Corte ha affermato che, affinché l’avvocato possa essere riconosciuto come civilmente responsabile dell’eventuale danno subito dal cliente, e` necessario dimostrare anche l’esistenza di un nesso causale tra la sua condotta e il danno stesso (cfr. Cass. civ. Sez. II, 27 maggio 2009, n. 12354, ove si legge che “in materia di responsabilità del professionista, il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questo è stato causato dalla insufficiente o inadeguata attività del professionista e cioè dalla difettosa prestazione professionale. In particolare, trattandosi dell’attività del difensore, l’affermazione della sua responsabilità implica l’indagine – positivamente svolta – sul sicuro e chiaro fondamento dell’azione, che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata, e, quindi, la certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista medesimo sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente, rimanendo, in ogni caso, a carico del professionista l’onere di dimostrare l’impossibilità, a lui non imputabile, della perfetta esecuzione della prestazione”).
Tale verificazione postula l’accertamento della circostanza che, se l’avvocato avesse tenuto una condotta diligente, l’esito del giudizio sarebbe stato probabilmente diverso da quello concretizzatosi, ossia più vantaggioso per il cliente.
Ed invero, il giudice, per pronunziarsi circa l’inadempimento del legale patrocinante e l’eventuale conseguente risarcibilità del danno provocato, non si fermerà ad una semplice valutazione circa il mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma valuterà se gli elementi di fatto e di diritto del procedimento non celebrato avrebbero potuto far pervenire ad un esito diverso il medesimo procedimento.
In altri termini, l’affermazione della responsabilità dell’avvocato implica l’indagine svolta positivamente sulla base degli elementi di prova che il cliente ha l’onere di fornire circa il fondamento sicuro e chiaro dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta e coltivata diligentemente (cfr. Cass. civ. Sez. II, 23 marzo 2006, n. 6537 ove è stato chiosato che “la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il danno del quale è chiesto il risarcimento. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva condannato un avvocato al risarcimento del danno, liquidato in via equitativa in nove milioni di lire, nei confronti di un cliente, relativamente alla detenzione di un mese e diciassette giorni da questi subita a seguito della mancata attivazione della procedura inerente alla rimessione in termini per proporre gravame. (Rigetta, App. Venezia, 5 Novembre 2001)”).
Tale evidenza può dirsi raggiunta anche con il criterio della probabilità degli effetti di una diversa e diligente condotta dell’avvocato.
Si ritiene, dunque, che non sia necessario che i fatti sui quali la presunzione si fonda siano tali da fare apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio, secondo un nesso di necessarietà assoluta e esclusiva.
È, invece, sufficiente che il collegamento avvenga alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento a una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo le regole di esperienza colte dal giudice per giungere al convincimento sulla probabilità di sussistenza e la compatibilità del fatto esposto con quello accertato. (cfr. Cass. civ. Sez. III, 18 aprile 2007, n. 9238 “L’affermazione della responsabilità professionale dell’avvocato non implica l’indagine sul sicuro fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta o diligentemente coltivata e, perciò, la “certezza morale” che gli effetti di una diversa attività del professionista sarebbero stati vantaggiosi per il cliente. Ne consegue che, al criterio della certezza della condotta, può sostituirsi quello della probabilità di tali effetti e della idoneità della condotta a produrli. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto che non vi era certezza, ma neppure possibilità di accertare che la domanda potesse essere accolta, posto che non era dato conoscere quali fossero esattamente le circostanze sulle quali i testimoni avrebbero dovuto deporre). (Rigetta, App. Firenze, 19 Novembre 2002)”).
Può, dunque, dirsi che la definizione dell’obbligazione gravante in capo all’avvocato come obbligazione di mezzi o di comportamento non preclude in concreto l’esame dell’esito negativo della lite per l’accertamento di un eventuale rapporto causale, esistente fra la mancata attuazione del risultato sperato dal cliente e l’inadempimento o il difettoso adempimento dell’attività professionale.
L’indagine, in tale caso, per il suo valore strumentale, concerne la decisione non come giudicato, ma come realtà giuridica, per la cui formazione nel processo civile non si astrae dalla condotta tenuta dalle parti e dai loro difensori (a volte, anzi, atteso il principio dispositivo che normalmente domina nell’ordinamento processuale civile, è conseguenza diretta ed esclusiva del contegno delle parti e dei loro legali.
Ogni magistrato è invitato a decidere una controversia, secondo la sua coscienza, ed il suo giudizio, ma non si può essere sicuri che la medesima vertenza, se fosse presentata ad altro magistrato, sarebbe nello stesso modo decisa.
Quanto riportato comporta che il cliente, il quale chieda il riconoscimento della responsabilità del proprio difensore per il ristoro dei danni (che egli assume aver subito a seguito dell’attività o dell’inattività del proprio legale), non possa limitarsi a dedurre l’astratta possibilità di addivenire ad un esito a lui favorevole.
Sul medesimo grava, come affermato dalla giurisprudenza, l’onere di dimostrare l’erroneità della sentenza in questione ovvero di produrre nuovi documenti o altri mezzi di prova idonei a fornire, se non la certezza, quantomeno una ragionevole probabilità che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto.
Ed invero, l’orientamento costante della Suprema Corte è chiaro nello stabilire che “in tema di responsabilità civile del professionista, il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questo è stato causato dall’insufficiente o inadeguata attività del professionista; pertanto – poiché l’art. 1223 c.c. postula la dimostrazione dell’esistenza concreta di una danno, consistente in una diminuzione patrimoniale – la responsabilità dell’avvocato per la mancata comunicazione al cliente dell’avvenuto deposito di una pronuncia sfavorevole – con conseguente preclusione della possibilità di proporre impugnazione – può essere affermata solo se il cliente dimostri che l’impugnazione, ove proposta, avrebbe avuto concrete possibilità di essere accolta” (Cass. Civ., sez. II, 27/05/2009, nr. 12354, parimenti Cass. Civ., sez. III, 29/09/2009 nr. 20928; Cass. Civ., 26/02/2002, nr. 2836, Cass. Civ., 27/01/1999, nr. 722).
La ratio di tale impostazione può essere ricercata nella difficoltà di differenziare le ipotesi nelle quali il comportamento dell’avvocato costituisce una scelta difensiva, poi rivelatasi erronea, da quelle caratterizzate da un’effettiva negligenza nell’adempimento della prestazione.
Ed invero, come affermato in una risalente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass., 30 ottobre 1957, n. 3589), mentre nel caso di omissione di un comportamento dovuto e` agevole accertare la colpa del professionista, nella valutazione di una condotta è considerevole il rischio di effettuare un giudizio ex post discrezionale sul merito e far coincidere la negligenza con il non raggiungimento del risultato atteso; considerando che anche “le oscillazioni della giurisprudenza, pur giustificate nella varietà dei casi, costituiscono un ulteriore elemento per procedere con cautela nell’identificare la colpa del professionista”.
Se si tiene conto di tutto ciò, occorre concludere, che, ove si tratti di accertare una negligente esecuzione della prestazione, solo l’errore inescusabile, dovuto a evidente ignoranza o incuria, dovrebbe considerarsi quale possibile fondamento per la responsabilità del legale.