LO STRESS DA LAVORO….
Il lavoratore sottoposto ad un orario stressante ha diritto ad essere risarcito se dalla sua condizione lavorativa deriva un danno alla salute.
È quanto affermato dalla Sezione lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza n. 18211 del 24 ottobre scorso.
In particolare, gli Ermellini hanno avuto cura di osservare che il danno in questione deve essere riconosciuto anche se il lavoratore non ha mai fatto rivendicazioni in tal senso durante il rapporto di lavoro.
La Corte ha cosi’ confermato le pronunce dei giudici di merito che avevano riconosciuto il risarcimento del danno biologico patito da un portiere notturno il cui orario di lavoro era stato ricostruito in dodici ore continuative.
Precisamente, nel caso di specie, un portiere notturno, per motivi di salute, chiedeva all’azienda per la quale lavorava di essere spostato al turno diurno e veniva licenziato attesa l’impossibilità per l’azienda di evadere la sua richiesta essendo il lavoro diurno già svolto da altri due lavoratori.
Ebbene, sia il tribunale di primo grado che la Corte d’Appello avevano giudicato legittimo il licenziamento ma al tempo stesso avevano condannato il datore di lavoro al pagamento di una somma di denaro nei confronti del lavoratore a titolo di risarcimento per danno biologico da stress per super lavoro.
Contro tale decisione la società datrice di lavoro presentava ricorso in Cassazione, sostenendo che quello del portiere non può essere considerato un lavoro usurante in virtù delle lunghe pause di inattività.
Tale tesi è stata rigettata, con la sentenza oggi in commento, dalla Corte di Cassazione la quale ha chiarito che il principio di ragionevolezza, in base al quale l’orario di lavoro deve comunque rispettare i limiti imposti dalla tutela del diritto alla salute, si applica anche alle mansioni discontinue o di semplice attesa per le quali la variabilità, caso per caso, della loro onerosità – che dipende dalla intensità e dalla natura della prestazione ed è diversa a seconda che questa sia continuativa, anche se di semplice attesa, o discontinua – impedisce una limitazione dell’orario in via generale da parte del legislatore.
In ogni caso, le pause di inattività eccepite dall’azienda a sostegno del proprio ricorso, secondo i giudici di legittimità, non potevano definirsi tali, dal momento che anche quando la mole di lavoro risultava minore per via dello scarso numero di clienti che bisognava accogliere, il portiere doveva comunque mettere a disposizione le sue energie lavorative, rimanendo vigile per accogliere eventuali nuovi clienti e continuando a sorvegliare la cassaforte.